Rivalità, sgambetti e dispetti

Michelangelo e Raffaello non potevano essere più diversi: dispotico, irruento e molto poco diplomatico il primo, giovane, affascinante e talentoso il secondo.

Ambiziosi e consapevoli ognuno del valore dell’altro, si rispettavano, anche se la competizione per la ricerca della gloria personale divenne presto una spiccata  rivalità che talvolta sconfinava nell’invidia.

Il Buonarroti era un genio solitario a tratti indomabile: Giulio II ne comprese subito la grandezza, anche se le cronache raccontano di furibondi litigi tra i due; al fiorentino vennero perdonate intemperanze e l’insofferenza mai celata all’autorità; rivendicò sempre  l’assoluta autonomia decisionale nell’esecuzione delle opere e fu gelosissimo delle sue tecniche di lavoro, tanto da  vietare categoricamente l’ingresso nella Sistina durante la realizzazione degli affreschi della volta.

Volta Cappella Sistina, Michelangelo

Di tutt’altra natura fu il rapporto tra Giulio II e Raffaello: il ventenne conquistò subito le simpatie del Pontefice, non solo per i suoi modi affabili e disponibili, ma soprattutto per la grande intelligenza; l’urbinate,  infatti, non esitava a coinvolgere nel suo lavoro i propri allievi: in breve tempo creò una fiorente e produttiva Bottega, grazie alla quale era in grado di accettare le numerose commissioni di grande prestigio che gli erano proposte, portandole a termine nei tempi convenuti, con grande soddisfazione dei committenti che ne elogiavano la maestria.

Ritratto di Giulio II, Raffaello

Nello periodo in cui il Pontefice incaricò Raffaello di affrescare le Stanze della Segnatura, poco più in là un solitario Michelangelo stava compiendo un lavoro immane: l’ammirazione del giovane artista per il Maestro Buonarroti risaliva al suo soggiorno fiorentino, durante il quale era rimasto colpito e affascinato dai lavori del Buonarroti: aveva studiato a lungo il David, per carpirne i segreti nascosti dietro alla potente ma allo stesso tempo elegante fisicità.

L'immagina raffigura la Stanza della Segnatura in Vaticano

Stanza della Segnatura, Raffaello, Vaticano

Si racconta che Raffaello non resistette alla tentazione e, in un momento di assenza del Maestro, di nascosto sbirciò dentro la Sistina, rimanendo attonito per lo stupore e la meraviglia delle scene illustrate nella volta,  non capacitandosi di come un uomo solo potesse essere in grado di realizzare un’opera così maestosa; Michelangelo, ovviamente,  si irritò moltissimo quando apprese che l’urbinate aveva spiato il suo lavoro, indifferente all’ammirazione suscitata nel giovane.

Raffaello colpito dalla grandezza del Maestro fiorentino, decise di dedicargli un tributo nella Scuola di Atene, il suo affresco più celebre, raffigurandolo in primo piano nella veste di Eraclito, imbronciato, chino e pensieroso. Alcuni studiosi ritengono che il modo in cui Michelangelo è stato raffigurato, con abbigliamento da lavoro ed estraneo rispetto al contesto che lo circonda, sia stata in realtà una presa in giro diretta a enfatizzare il carattere poco socievole del Buonarroti.

Il Diritto Perfetto - La Scuola di Atene

Scuola di Atene, Raffaello, Stanza della Segnatura

 

Michelangelo dal canto suo, era consapevole dello straordinario talento di Raffaello e segretamente ne ammirava il lavoro. Quando venne a conoscenza dell’appalto conferito al giovane collega da Agostino Chigi, banchiere e mecenate dell’epoca, per la realizzazione degli affreschi della faraonica Villa Chigi – oggi Villa Farnesina –  in un momento di assenza dell’artista, si recò a vedere come procedevano i lavori.

Sala di Amore e Psiche, Villa Farnesina, Roma

La leggenda narra che Michelangelo rimase sorpreso dalla bellezza e sensualità del Trionfo di Galatea: decise, quindi, di testimoniare il proprio passaggio, disegnando a carboncino in una delle nicchie della sala del banchetto intitolata ad Amore e Psiche una gigantesca testa raffigurante un giovane.

Quando Raffaello se ne accorse si arrabbiò moltissimo, geloso com’era della segretezza dei suoi lavori in corso d’opera, ma decise di non cancellarla in segno di rispetto al grande Maestro.

Testa di giovane realizzata da Michelangelo, Villa Farnesina, Roma

La mano di Michelangelo sembra abbia aiutato anche l’amico Sebastiano Del Piombo, impegnato nel dipingere Polifemo che insegue Galatea: anche Del Piombo soffriva la grande bravura di Raffaello e non voleva in alcun modo sfigurare al suo confronto, per cui chiese all’amico Michelangelo di disegnare il corpo della creatura, poi lui avrebbe colorato la figura. Effettivamente, guardando il corpulento Ciclope sembra di scorgere la tipica fisicità michelangiolesca.

Polifemo, Sebastiano Del Piombo e il Trionfo di Galatea di Raffaello

Purtroppo, la proficua competitività tra i due non durò molto a causa della prematura scomparsa di Raffaello a soli trentasei anni: appresa la notizia della morte del giovane, Michelangelo si propose a Papa Leone X per ultimare le stanze del Vaticano, adducendo che il lavoro fosse troppo importante  per essere lasciato nelle mani degli allievi di bottega.

Il Pontefice rifiutò la proposta, evidenziando come Raffaello avesse istruito alla perfezione i suoi collaboratori, i quali furono assolutamente in grado di ultimare il lavoro del loro Maestro, consegnandolo all’immortalità.

Dettaglio Sala di Amore e Psiche, Raffaello, Villa Farnesina

 

Per approfondire:

“Raffaello una vita felice” di Antonio Forcellino, Editori Laterza

https://www.ildirittoperfetto.it/denaro-potere-e-la-magnificenza-dellarte/

https://www.ildirittoperfetto.it/la-potenza-dellimmagine-tra-appalti-e-subappalti/

Ad majora… tradimenti, speranze e fortuna.

Molte espressioni latine o frasi celebri sono vive e in uso ancora oggi: può trattarsi di massime di vita, insegnamenti, auspici o sottesi avvertimenti.

Venenum in auro bibitur: il veleno lo si beve in coppe d’oro, così scriveva Seneca nella tragedia Tieste. Nel rinascimento la locuzione si riferiva alle sofisticate modalità di somministrazione del veleno, che di frequente veniva miscelato alle bevande in calici d’argento: l’intenso sapore del vino, spesso speziato, copriva il veleno e l’impossibilità di vedere la polvere in trasparenza perfezionava il veneficio. In senso traslato può essere riferito a qualcosa di malevolo nascosto da una dolcezza apparente.

Il Bacco fanciullo attribuito a Guido Reni

Bacco Fanciullo, attribuito a Guido Reni

Sub rosa dicere: dire sotto la rosa. L’espressione completa “sub rosa dicta velata est” indica segretezza e riservatezza. All’epoca medievale la rosa bianca simboleggiava discrezione e silenzio, per questo motivo cinque petali  sono frequentemente incisi sopra i confessionali nelle chiese. Taluni studiosi collegano questa tradizione alla mitologia classica, ricordando il rapporto tra Amore e Silenzio, divenuto simbolo della segretezza amorosa.

L'immagine rappresenta delle rose dipinte da Van Gogh

Rose Bianche, Vincent Van Gogh

Quousque tandem Catilina: locuzione tratta dalla versione completa “Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” (Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?): sono le parole dell’invettiva pronunciata in Senato da Cicerone contro Catilina per denunciarlo dopo aver scoperto la congiura ordita ai danni della Repubblica. Catilina ritenuto colpevole di tradimento fu condannato a morte. Venne ripresa da Sallustio e da molti altri autori latini compreso Seneca, oggi è riferita a colui che abusa della pazienza altrui.

L'immagine rappresenta Cicerone denuncia Catilina, Cesare Maccari

Cicerone denuncia Catilina, Cesare Maccari

Tu quoque, Brute, fili mi?: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Secondo Svetonio queste sarebbero state le ultime parole di Giulio Cesare prima di morire per mano dei congiurati. E’ espressione del più grave e inaspettato dei tradimenti, anche se Bruto in realtà non era figlio biologico di Cesare, ma uno dei suoi prediletti. La locuzione è stata ripresa anche da Shakespeare nell’omonima tragedia; oggi è diffusa nella forma più semplice di “Tu quoque” per indicare un comportamento inaspettato o sorprendente.

L'immagine rappresenta la morte di Cesare di V. Camuccini

La morte di Cesare, Vincenzo Camuccini

Sic transit gloria mundi:  così passa la gloria del mondo. La frase è tratta dalla prima lettera di Giovanni l’evangelista ed è divenuta celebre in quanto veniva ripetuta tre volte al Papa appena eletto al soglio pontificio per ricordare quanto sia effimero il nostro passaggio in questo mondo. Oggi si usa per commentare improvvisi cambiamenti successivi a momenti positivi o di grande fortuna.

L'immagine rappresenta un particolare con angelo di Rubens

Angelo,particolare, Pieter Paul Rubens

Audantes fortuna iuvant: la fortuna aiuta gli audaci. La locuzione è stata scritta per la prima volta nell’Eneide di Virgilio. Con queste parole Turno, re dei Rutuli, esortava i suoi uomini contro Enea. Il senso della frase consiste nell’invito a essere sempre coraggiosi, anche di fronte alle situazioni più difficili. Oggi è il motto dell’Università degli studi Milano-Bicocca e del lancia missili “Audace” della Marina Militare Italiana.

L'immagine rappresenta la Nike di Samotracia

Nike di Samotracia, Musée du Louvre

 

Per aspera ad astra: (per aspera sic itur ad astra), letteralmente attraverso le asperità alle stelle. La locuzione già cara a Platone venne utilizzata anche da Lucio Anneo Seneca nel suo Hercules furente, che dovette affrontare le celebri dodici fatiche per raggiungere la fama eterna. Oggi la locuzione è riferita alle difficoltà che devono essere superate prima di arrivare al successo. Una curiosità: il compositore polacco Moritz Moskowski intitolò “Per aspera ad astra” , Op. 72, quindici studi di virtuosistici per pianoforte.

L'immagine raffigura la Starry Night di Van Gogh

Starry Night, Vincent Van Gogh

Sapere aude!: letteralmente “osa sapere”, nell’interpretazione significa “abbi il coraggio della tua intelligenza”. L’espressione è riferibile a Orazio, ma nella modernità divenne il principio ispiratore dell’Illuminismo grazie a Immanuel Kant, che la pronunciò per spiegare la centralità della ragione e della conoscenza, unici mezzi con i quali l’uomo avrebbe potuto superare la sua condizione primitiva. Oggi è un’esortazione a utilizzare l’intelligenza e la conoscenza per raggiungere nuovi traguardi e favorire il progresso  per il bene collettivo.

l'immagine rappresenta La suola di Atene, Raffello, Stanza della Segnatura

La suola di Atene, particolare e Aristotele, Raffello, Stanza della Segnatura

Per approfondire:

Per approfondire: Dizionario delle sentenze latine e greche, a cura di Renzo Tosi, ed. BUR 2017

Denaro, potere … e la magnificenza dell’arte

Esiste un sottile file rouge che nel tempo lega indissolubilmente denaro e arte.

Il nostro straordinario patrimonio artistico è il risultato del connubio tra diversi fattori: artisti dalle menti e mani sopraffine sono stati capaci di superare la meraviglia della natura, ma tanta genialità ha avuto la possibilità di esprimersi e diffondersi grazie a coloro i quali, per i fini  più diversi, hanno creduto e sostenuto (soprattutto finanziariamente) pittori e scultori divenuti pilastri della storia dell’arte. Senza il contributo di questi mecenati non avremmo Giotto, Leonardo, Raffaello, Michelangelo, Caravaggio,  Bernini e molti, molti altri.

L'immagina raffigura il Salvador Mundi - Leonardo, David - Michelangelo, Fuga in Egitto (dettaglio) Caravaggio, Angelo - Bernini

Salvador Mundi – Leonardo, David – Michelangelo, Fuga in Egitto (dettaglio) – Caravaggio, Angelo – Bernini

La Chiesa in questo percorso è stata di certo la protagonista avendo colto, forse più di chiunque altro, lo stretto legame tra potere e  capacità comunicativa delle immagini, considerato che all’epoca quasi nessuno dei fedeli sapeva leggere. La magnificenza delle chiese e la forza evocativa delle opere realizzate diventavano l’espressione della potenza e bellezza di Dio, diffondendone il culto in Terra con l’effetto di consolidare il già forte potere ecclesiastico.

L'immagina raffigura la Basilica di San Pietro - il Baldacchino del Bernini, Roma

Basilica di San Pietro – il Baldacchino del Bernini, Roma

Ma non vi fu solo la Chiesa. Nel Rinascimento i ricchi mercanti erano divenuti banchieri in grado di finanziare Papi e Sovrani in guerre e lotte di ogni genere; anch’essi avevano compreso come il potere potesse essere rafforzato e ammantato di una luce benevola quando il denaro passava attraverso la bellezza.

L'immagine raffigura unDettaglio della Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Dettaglio della Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi, Firenze

Fu così che accanto alle proficue attività finanziare dei Medici e degli altri banchieri toscani –  dai Pazzi di Firenze ai Chigi di Siena – fiorirono i collaterali rapporti con il mondo della cultura e dell’arte. Gli artisti, a loro volta, erano perfettamente consapevoli che la “sponsorizzazione” giusta, quella più illustre, poteva valere la loro fortuna.

Nonostante i secoli trascorsi, le cose  non sono molto cambiate: si trattava – e si tratta tutt’oggi –  di una questione d’immagine. La realizzazione di grandi capolavori dava lustro e fama al mecenate e, talvolta, serviva a lavarsi la coscienza di fronte alla collettività e a Dio, qualora la ricchezza provenisse da fonti non sempre lecite, usura in primis.

Interessante è la storia di Agostino Chigi: senese, figlio di banchieri, già nel corso del suo apprendistato con il padre rivelò spiccate doti imprenditoriali, unite a un’educazione raffinata e a un notevole savoir faire nelle relazioni sociali.

L'immagina raffigura il ritratto di Agostino Chigi

Agostino Chigi – Ritratto

L’occasione d’oro gli si presentò quando Alessandro VI Borgia decise di passare la gestione delle finanze pontificie al banco degli Spanocchi, presso i quali il ragazzo lavorava: Agostino riuscì a conquistare la simpatia del pontefice e iniziò a finanziare il figlio Cesare Borgia.

In breve il giovane diventò molto di più del fidato banchiere del Papa: fu abilissimo nell’insinuarsi nelle maglie della gestione del potere, ottenendo importanti incarichi all’interno del Vaticano, tra cui la direzione delle saline e la gestione della dogana. Poco più tardi accettò di finanziare Alessandro VI per cifre consistenti: il mutuo avrebbe dovuto essere restituito in tre anni circa, ma il Papa risultò inadempiente agli obblighi assunti. Pare che il Chigi non abbia promosso alcuna azione di recupero del credito, optando per una diversa strategia di rientro delle somme mutuate.

Con un vero colpo da maestro, riuscì a ottenere dal Papa la concessione dello sfruttamento delle miniere di allume a Tolfa: si tratta di un minerale essenziale nella tintura delle stoffe dell’epoca da esportarsi in tutta Europa. Con questa operazione l’attività imprenditoriale di Agostino prese il volo e diventò uno dei personaggi più ricchi d’Europa.

L'immagine rappresenta leMiniere di allume di Tolfa, Pietro da Cortona

Miniere di allume di Tolfa, Pietro da Cortona

Quanto al debito di Papa Borgia, l’estinzione dell’obbligazione fu frutto di un patto  compensativo tra i rispettivi crediti liquidi ed esigibili: da un lato quanto il banchiere doveva per la concessione di sfruttamento minerario, dall’altro il suo credito per le somme erogate a titolo di mutuo. Tre tranche di compensazione e il rientro fu integrale. Un accordo perfetto.

Lo stretto rapporto con Papa Borgia poteva rivelarsi un ostacolo per gli affari di Chigi quando alla morte di Alessandro VI gli successe Giulio II. Papa della Rovere detestava il predecessore come nessun altro: ricordiamo che rifiutò persino di occupare gli appartamenti papali abitati dal Borgia, poiché ritenuti pregni di peccato e convocò Raffaello affinché provvedesse ad affrescare le sue nuove stanze private cosicché fossero rispecchiate la grandezza e la levatura morale del nuovo pontefice.

L'immagina raffigura la Stanza della Segnatura in Vaticano

Stanza della Segnatura – Raffaello, Vaticano

Anche in questa circostanza Agostino Chigi agì da fine diplomatico: conoscendo le mire espansionistiche di Giulio II, si rese disponibile a far credito al nuovo Papa, il quale accettò senza tante remore l’offerta. Il legame tra i due fu sempre forte e solido tanto è vero che il Papa inquartò lo stemma dei Chigi a quello dei Della Rovere.

Come ogni banchiere che si rispetti, Agostino fu molto attivo anche sul fronte dell’arte: intorno al 1500 acquistò un terreno in Via della Lungara a Roma dove, su progetto dell’architetto toscano Baldassarre Peruzzi, edificò la sua Villa di rappresentanza destinata ad attività culturali e divertimento. L’immobile venne realizzato su due piani e ricorda le ville medicee per bellezza e prestigio.

L'immagina raffigura Villa Chigi a Roma

Villa Chigi, detta anche la Farnesina, Roma

Villa Chigi doveva essere la celebrazione dei successi professionali di Agostino e un tributo all’amore e ai sentimenti; il banchiere affidò l’appalto per le decorazioni niente meno che al Principe delle Arti: Raffaello. L’urbinate, che non ha mai perso un’occasione per aumentare il proprio prestigio, accettò l’incarico e realizzò lo straordinario  Trionfo di Galatea, dedicato all’amata di Agostino, Francesca Oderaschi non proprio nobili origini poiché precedentemente dedita all’antico mestiere.

L'immagine rappresenta il Trionfo di Galatea - Raffaello, Villa Farnesina, Roma

Trionfo di Galatea – Raffaello, Villa Farnesina, Roma

L’affresco è un inno alla sensualità femminile  e, nonostante fosse un’opera pagana con una protagonista al quanto discinta, il Papa si recò più volte in visita alla Villa tanta era bellezza di quel luogo.

Raffaello disegnò anche i bozzetti della Loggia di Amore e Psiche che venne affrescata dal migliore dei suoi allievi, Giovanni da Udine: l’ingegnosa idea di trasformare il soffitto in un pergolato regala allo spettatore l’illusione di entrare in un parco, mentre la favola della Ninfa Psiche che si innamora del bellissimo Cupido è rappresentata in ogni dettaglio sino al lieto fine.

L'immagina raffigura il soffitto della loggia di Amore e Psiche a Villa Farnesina

Loggia di Amore e Psiche – Villa Farnesina, Roma

Villa Chigi fu un successo, vi si tennero feste e banchetti grandiosi, ma ebbe vita breve: dopo i sette anni di convivenza Agostino e Francesca di sposarono, ma lui morì un anno dopo, lei a qualche mese di distanza e la Villa fu abbandonata sino al 1579 quando venne acquista dalla famiglia Farnese, da qui il nome attuale di Villa Farnesina.

Villa Chigi fu la massima espressione dell’incontro tra due mondi, quello della finanza e quello dell’arte spesso complementari l’uno all’altro.

L'immagina raffigura un Dettaglio Loggia di Amore e Psiche - Villa Farnesina, Roma

Dettaglio Loggia di Amore e Psiche – Villa Farnesina, Roma

Ma vi è di più, la bellezza di questa storia rinascimentale sta nell’incontro di due personalità uniche: Agostino e Raffaello,  giovani, appassionati della vita e, seppur con doti diverse, entrambi fuori dal comune, entrambi geniali; forse per questo riuscirono a comprendersi e completarsi regalandoci un capolavoro che è un inno all’amore e alla più sconsiderata bellezza.

L'immagina raffigura un Dettaglio Loggia di Amore e Psiche - Disegno di Raffaello, Villa Farnesina, Roma

Dettaglio Loggia di Amore e Psiche – Disegno di Raffaello, Villa Farnesina, Roma

 

 

Per approfondire:

U. Santarelli “Mercanti e società tra mercanti”, ed. Giappichielli 1992; C. D’Orazio “Raffaello segreto”, ed. Pickwik 2017; C. D’Orazio “Mercanti di bellezza”, ed. Rai Com SPA – Rai Eri 2017; T. Cartù “Sebastiano del Piombo a Roma 1511 -1547” ed. Federico Motta 2008; www.ilsole24ore.com “Il fiorino motore di bellezza nella Firenze del Rinascimento”, di V. Ronzani 20 settembre 2011.

La potenza dell’immagine tra appalti e subappalti.

Tra gli appalti più celebri della storia possiamo ricordare quello conferito da Papa Giulio II a Raffaello Sanzio. Dopo aver creato un forte Stato temporale, il Pontefice commissionò ai più noti maestri del tempo la realizzazione di opere d’arte di assoluta bellezza e dallo straordinario potere evocativo, al fine di rappresentare ed esaltare la potenza della Chiesa, avviando così la più intensa campagna d’immagine e comunicazione del Rinascimento.
Il Diritto Perfetto - La Scuola di Atene

I presupposti per garantire il massimo successo del progetto c’erano tutti, atteso che egli poté convocare alla sua corte artisti del calibro di Michelangelo, Raffello e non ultimo Bramante, al quale commissionò la realizzazione della nuova chiesa di Roma, quella che poi diverrà la Basilica di San Pietro.
Tra tutti questi grandi maestri Raffaello è forse il più interessante, non solo perché appena venticinquenne era noto per il garbo, l’eleganza e la raffinata educazione, ma soprattutto per come il giovane appaltatore gestì con maestria e sottile intelligenza la complessa situazione conseguente all’incarico di affrescare gli appartamenti privati del Papa.
Giulio II, infatti, aveva categoricamente rifiutato di occupare quelli precedentemente abitati da Papa Alessandro VI Borgia, per via della condotta non proprio specchiatissima del suo predecessore.

Il Diritto Perfetto - Il Parnaso - Raffaello

Il Parnaso – Raffaello


Raffaello accettò di buon grado l’appalto, ma i lavori erano già in parte iniziati e alcune opere realizzate da altri noti maestri del tempo, tra i quali spiccava il nome di Lorenzo Lotto. Per questi ultimi l’incarico al giovane artista rappresentava un grave danno, sia in termini patrimoniali che d’immagine.
Di questo Raffaello era ben consapevole, così come aveva coscienza di non avere l’esperienza necessaria ad affrontare da solo un’opera titanica come quella assegnatagli; quindi, optò per una soluzione alquanto innovativa e moderna: egli non allontanò i vecchi maestri, ma strinse con loro una proficua collaborazione.

Il Diritto Perfetto - Disputa del Sacramento

Disputa del Sacramento – Raffaello


Di fatto si perfezionarono dei contratti di subappalto, che conferivano ai vecchi maestri specifici incarichi e precise mansioni, il tutto sempre sotto la completa supervisione di Raffaello.
Il risultato fu epocale: la sola stanza della Segnatura regalò al mondo capolavori inarrivabili come la “Scuola di Atene” o la “Virtù e la Legge”.

Lo spirito imprenditoriale del giovane urbinate non si fermò qui: egli si circondò di giovani allievi, in una sorta di apprendistato dell’epoca, i più dotati divennero veri e propri collaboratori del maestro, portando alla nascita della Bottega di Raffaello.


Il lavoro dell’artista divenne così il frutto di un continuo e costruttivo confronto, dal quale nacquero capolavori di eterna perfezione e irraggiungibile bellezza.

Per approfondire:

A. Forcellino “Raffaello una vita felice” ed. spec. Corriere della Sera; C. D’Orazio “Raffaello Segreto” ed. Pickwick 2017

Il furto del secolo… e il delitto imperfetto.

Budapest. Notte tra il 5 e 6 novembre 1983. L’oscurità avvolge Piazza degli Eroi nel cuore della capitale Ungherese dove si erge il Museo delle Belle Arti, con la sua ricchissima collezione donata dai principi Esterhàzy. Nel silenzio gelido tre figure si arrampicano furtive sull’impalcatura dei lavori di restauro installata sul retro del museo.
Il Diritto Perfetto: il furto del secolo

Nonostante le ricchezze ospitate, il sistema d’allarme è fuori uso da tempo. I tre uomini, giunti al secondo piano, forzano senza difficoltà una delle finestre e, in men che non si dica, sono dentro. Si dirigono dritti verso la stanza degli italiani, staccano dal muro sette capolavori: un paio di Tintoretto, un Giorgione, altri due del Tiepolo e per finire due di Raffaello, “Ritratto di Giovane” e l’inestimabile “Madonna Esterhàzy”.
Quest’ultima è un piccolo quadro al quale il giovane Raffello doveva essere particolarmente legato: si pensa fosse una sorta di “diario” per ricordargli di quando lasciò Firenze per Roma, dove scrisse le più belle pagine della storia dell’arte. Nella Città Eterna proseguì il dipinto iniziato in Toscana, lo si deduce dai resti del Foro Romano rappresentati sullo sfondo, ma non lo portò a termine, rimanendo ancora visibile il disegno preparatorio da eliminare con le ultime pennellate di rifinitura.

Il Diritto perfetto - Il Museo di belle arti di Budapest

Il Museo di belle arti di Budapest


Torniamo al nostro furto: dopo appena una ventina di minuti i tre sono già fuori con il ricco bottino, dove due complici ungheresi li attendono a bordo di un’auto con la quale si allontanano indisturbati. Tutto secondo i piani.
Sino alla tarda sera di domenica 6 novembre nessuno si accorge di nulla, poi la notizia si diffonde a gran voce: il fatto è su tutti i notiziari del mondo. Nel frattempo la Polizia ungherese indaga: sul luogo del delitto si rinviene un cacciavite sul quale è impressa la dicitura “USAG”. Indizio o depistaggio? Qualche giorno dopo da un fiume emerge un sacco di iuta, dentro ci sono le cornici dei sette capolavori rubati: all’interno vi è un’etichetta che reca un marchio di fabbricazione, dove si legge “Porto Marghera”, località industriale vicino a Venezia, mentre si accerterà che il cacciavite non è americano, bensì prodotto da un’azienda milanese.

Il Diritto Perfetto - Ritratto di Pietro Brembo

Raffaello Santi – Ritratto di Pietro Bembo


La pista si sposta in Italia: inizia una stretta collaborazione investigativa tra i Carabinieri del Nucleo Tutela dei Patrimonio Artistico e la Polizia ungherese. Un altro particolare balza agli occhi: negli stessi giorni del furto, in Ungheria scompare una ragazza di sedici anni, che parla perfettamente l’italiano. Si segue anche quella pista: poco tempo e la giovane viene rintracciata in ambienti di dubbia fama, messa alle strette confessa quasi subito.
Era stata avvicinata da due italiani, si innamorò di uno di loro e per questo accettò di aiutarli, trovando un paio di complici che avrebbero dovuto fare da palo durante l’operazione. Identificati i due balordi, ben presto vennero acciuffati: in sede di interrogatorio, uno dei due raccontò il piano in ogni dettaglio, comprese le diverse ricognizioni effettuate nei giorni precedenti al furto per capire i tempi del giro delle guardie e per accertare quali fossero le misure di protezione poste a tutela delle opere.
Specificarono che la loro ricompensa per la collaborazione fu il “Ritratto di giovane” di Raffaello, valore 17 miliardi di lire dell’epoca, che pensarono bene di seppellire in un campo poco distante in attesa di tempi migliori per monetizzare. In breve il dipinto venne ritrovato in buone condizioni.
Nel frattempo, in Italia, i Carabinieri proseguono una meticolosa indagine alla vecchia maniera: indizi e riscontri, vagliati senza i grandi supporti tecnologici di oggi, portano in un bar di Reggio Emilia. Vengono identificati due personaggi, tali Ivano Scianti e Graziano Iori, i cui nomi erano già spuntati in altri reati connessi al mondo dell’arte.
Un altro nome emerge dall’indagine: si tratta di un certo Morini, proprietario di una Fiat Ritmo rossa, il quale che da qualche tempo viaggiava con una Citroen a noleggio. Che fine aveva fatto la Ritmo Rossa?
Gli inquirenti incrociano queste informazioni con gli ungheresi i quali, con un certosino lavoro di controllo delle immagini della frontiera, riferiscono che effettivamente una vettura identica a quella indicata aveva varcato il confine poco dopo il furto in direzione della Jugoslavia.
Il Morini venne sottoposto a interrogatorio: consapevole del rischio di finire in un carcere ungherese, iniziò con le prime ammissioni, dichiarando che la Ritmo Rossa si trovava presso un’officina meccanica in Grecia, essendo rimasto in panne durante una vacanza. Gli investigatori ritennero piuttosto strano il mese di novembre per andare in vacanza in Grecia…
Tutte le piste portano al mondo dei trafficanti di opere d’arte: la mente della banda risulta essere Scianti, ma né lui, né Iori risultano reperibili. Viene, quindi, allertata la Polizia greca, la quale accerta che, nei pressi del luogo dove sarebbe stata ricoverata la Ritmo rossa, vive un ricco appassionato di opere d’arte.
Ormai il cerchio si stringe e i quadri diventano difficilmente piazzabili, c’è troppo clamore intorno al caso, il mondo intero attende notizie; il timore è che vengano distrutti.
Invece, si verifica la svolta: una telefonata anonima perviene al capo del Servizio Interpol della Grecia, rivelando il luogo dove si sarebbero potuti ritrovare i sei dipinti rubati. Le Forze dell’Ordine si precipitano sul posto e in una cassa ritrovano le tele: tutte più o meno in buono stato.
C’è anche la Madonna Esterhàzy, forse quella che ha subito il danno maggiore, una crepa longitudinale dovuta al fatto di essere stata piegata, ma nulla di irreparabile. La notizia del ritrovamento fa il giro del mondo, con grandi onori alle Forze dell’Ordine di tutti i paesi coinvolti, evidenziando la grande efficacia della cooperazione investigativa internazionale.
Tralasciando le dimissioni della direttrice del Museo e altri vari strascichi, vi è dire che all’esito della celebrazione dei processi le pene comminate dagli ungheresi furono molto più severe di quelle dei Giudici italiani. I due complici di Budapest vennero condannati rispettivamente a 5 e 11 anni, mentre la ragazza minorenne, dopo il processo d’appello, rimase in libertà con l’obbligo di rigare dritta.
Gli italiani, autori materiali del fatto, furono condannati a pene comprese tra i 4 anni e 9 mesi e i 4 anni e sei mesi.
Il 30 dicembre del 2014, Ivano Scianti rilasciò un’intervista al quotidiano “Gazzetta di Reggio” dove raccontò tutta questa rocambolesca storia, compreso il clamoroso errore del cacciavite che pensavano fosse di fabbricazione americana, lasciato nel tentativo di depistare le indagini verso l’ipotesi del complotto contro un paese comunista, nonché del sacco di iuta con l’etichetta italiana. Tutto venne raccontato… tranne il nome del vero mandante del furto del secolo.

Per approfondire:

“L’ombra di Caravaggio” di R. Fagiolo, ed. speciale del Corriere della Sera n. 28

“Gazzetta di Reggio” di T. Soresina del 31 dicembre 2014