L’arte, la libertà … e il coraggio.

“La bellezza salverà il mondo”: in queste famose parole si condensa lo spirito di colui che dedicò tutto sé stesso per recuperare le migliaia di opere d’arte che i nazisti sfacciatamente trafugarono dal nostro Paese.

Il diritto perfetto - Storia di Ruggero Siviero

Molti cittadini furono disposti a correre rischi e pericoli per salvare i capolavori della nostra storia e a ognuno di essi è rivolta nostra la gratitudine, ma tra tutti spicca il nome di Ruggero Siviero.
Fiorentino, colto e raffinato con una particolare attitudine per le pubbliche relazioni, divenne un impavido agente segreto nella Germania degli anni ’30, osservando e passando informazioni sulle modalità di confisca dei beni agli ebrei.
Nel ’38 iniziò a destare sospetti, per cui venne espulso dal territorio tedesco; poco dopo – forte di quanto appreso sul campo come agente infiltrato – iniziò la sua spericolata attività di protettore e cacciatore di opere d’arte, capeggiando un gruppo di antifascisti dediti anch’essi a contrastare la sottrazione di capolavori inestimabili per mano germanica.
È noto che i nazisti, oltre alle indicibili nefandezze di cui si macchiarono, erano soliti depredare il patrimonio artistico dei vari paesi europei: il Louvre venne svuotato, Olanda e Belgio pagarono un prezzo carissimo e la sorte italiana non fu diversa.
Non si può negare che i teutonici avessero pensato proprio a tutto, arrivando a costituire il “Kunstschutz”, ente diretto dal prof. Alexander Langsdorff – colonnello delle SS – il cui compito ufficiale era quello di proteggere le opere d’arte italiane dai danni che avrebbero provocato gli alleati, mentre in realtà era un sistema “legale” per razziare indiscriminatamente il nostro patrimonio artistico.

Il Diritto Perfetto - Bacco di Michelangelo

Il Bacco di Michelangelo


All’inizio del 1944 si vociferava che Goring avesse messo gli occhi su un meraviglioso dipinto del Beato Angelico – l’Annunciazione – collocato presso il Convento francescano di Montecarlo in San Giovanni Val d’Arno.
Il dipinto fa parte delle tre grandi tavole dell’Annunciazione, ma questa spicca per la magnificenza del colore espressa nella ricchezza della veste rossa e oro dell’Arcangelo Gabriele in contrasto con quella blu della Madonna. Un inarrivabile capolavoro del ‘400 italiano.
Siviero, che conosceva bene la passione per l’arte di Goring – il quale si era personalmente “trattenuto per evidenti ragioni di tutela e protezione” un terzo delle opere prelevate dal Louvre – non perse tempo, riuscendo ad avvisare la Soprintendenza, nonché due frati francescani del convento di Piazza Savonarola a Firenze.
Il dipinto venne immediatamente prelevato, nascosto e salvato dalle grinfie naziste. Grazie al suo intervento la tavola è oggi conservata presso la Chiesa di Santa Maria delle Grazie a San Giovanni Val d’Arno.
In seguito, Siviero fu protagonista di altri innumerevoli avventurosi recuperi, realizzati grazie a un’intensa ed efficacissima attività d’intelligence, unita a una caparbietà fuori dal comune, che comprendeva persino il pedinamento dei camion tedeschi carichi di tesori dal valore inestimabile.
A lui si deve il ritrovamento di capolavori di De Chirico, del Bacco di Michelangelo, del San Giorgio di Donatello, della Madonna del Divino Amore di Raffello, nonché di Hermes di Lisippo, oltre a migliaia di altri tesori impunemente trafugati.
Finita la guerra riuscì a far valere di diritto dell’Italia alle restituzioni come se fosse stato un paese occupato al pari dell’Olanda.

Il Diritto Perfetto: Madonna del Divino Amore di Raffaello

Madonna del Divino Amore di Raffaello


Ma il vero colpo di genio fu un altro, un tocco degno del più fine dei giuristi: Siviero affermò che gli acquisti da parte della Germania di opere d’arte avvenuti prima dello scoppio del conflitto erano invalidi, essendo stati il risultato di pressioni politiche e che, comunque, si trattava alienazioni in violazione delle norme di legge.
Sotto il profilo di diritto non fece altro che denunciare la nullità di quei contratti, poiché stipulati contra legem.
All’epoca l’attuale Codice Civile era già in vigore, risalendo al 1942: la nullità del contratto è disciplinata dagli art. 1418 e ss., dove si specificano con precisione le diverse cause di invalidità, che spaziano dalla mancanza di uno degli elementi essenziali del negozio (consenso, oggetto, causa e forma), all’illiceità di taluni di essi, prevedendo, altresì, una norma di chiusura secondo cui sono nulli tutti i contratti contrari a norme imperative.
Il negozio nullo non produce alcun effetto; in altre parole, è come se non fosse mai stato perfezionato: ne consegue un reciproco obbligo restitutorio in capo alle parti, le quali sono obbligate a rendere quanto ricevuto in esecuzione del rapporto invalido.
Verosimilmente, Siviero ricorse proprio a questa disposizione di generale di contrarietà alla legge per eccepire la nullità – e quindi l’assoluta inefficacia – delle cessioni di opere d’arte effettuate prima dello scoppio della guerra: nonostante le strenue resistenze tedesche, secondo cui tali rapporti esulavano da quanto statuito per le restituzioni post belliche, Siviero ne uscì vittorioso, consentendo il rientro in Italia del Gentiluomo di Memling e del Discobolo di Lancellotti.
Negli anni successivi Siviero continuò per conto dello Stato italiano la sua attività di recupero dei capolavori con clamorosi successi, dando un contributo unico nella storia della tutela del patrimonio artistico del nostro Paese.
Si spense a Firenze nel 1983, ma non senza aver cercato di dare, ancora un volta, il proprio apporto nella ricerca della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio rubata nel 1969 a Palermo e mai più ritrovata… ma questa sarà un’altra storia.

Per approfondire:

“Eroe e spia: lo strano destino di Rodolfo Siviero” di Daniela Cavini in Sette/Redazionale 14, 8/4/2017, pg. 56 e 57

“L’ombra di Caravaggio” di R. Fagiolo – I manuali del Corriere della Sera – L’arte come un romanzo n. 28 ed. Nutrimenti srl 200 ed. RCS MediaGroup Spa 2017

Il furto del secolo… e il delitto imperfetto.

Budapest. Notte tra il 5 e 6 novembre 1983. L’oscurità avvolge Piazza degli Eroi nel cuore della capitale Ungherese dove si erge il Museo delle Belle Arti, con la sua ricchissima collezione donata dai principi Esterhàzy. Nel silenzio gelido tre figure si arrampicano furtive sull’impalcatura dei lavori di restauro installata sul retro del museo.
Il Diritto Perfetto: il furto del secolo

Nonostante le ricchezze ospitate, il sistema d’allarme è fuori uso da tempo. I tre uomini, giunti al secondo piano, forzano senza difficoltà una delle finestre e, in men che non si dica, sono dentro. Si dirigono dritti verso la stanza degli italiani, staccano dal muro sette capolavori: un paio di Tintoretto, un Giorgione, altri due del Tiepolo e per finire due di Raffaello, “Ritratto di Giovane” e l’inestimabile “Madonna Esterhàzy”.
Quest’ultima è un piccolo quadro al quale il giovane Raffello doveva essere particolarmente legato: si pensa fosse una sorta di “diario” per ricordargli di quando lasciò Firenze per Roma, dove scrisse le più belle pagine della storia dell’arte. Nella Città Eterna proseguì il dipinto iniziato in Toscana, lo si deduce dai resti del Foro Romano rappresentati sullo sfondo, ma non lo portò a termine, rimanendo ancora visibile il disegno preparatorio da eliminare con le ultime pennellate di rifinitura.

Il Diritto perfetto - Il Museo di belle arti di Budapest

Il Museo di belle arti di Budapest


Torniamo al nostro furto: dopo appena una ventina di minuti i tre sono già fuori con il ricco bottino, dove due complici ungheresi li attendono a bordo di un’auto con la quale si allontanano indisturbati. Tutto secondo i piani.
Sino alla tarda sera di domenica 6 novembre nessuno si accorge di nulla, poi la notizia si diffonde a gran voce: il fatto è su tutti i notiziari del mondo. Nel frattempo la Polizia ungherese indaga: sul luogo del delitto si rinviene un cacciavite sul quale è impressa la dicitura “USAG”. Indizio o depistaggio? Qualche giorno dopo da un fiume emerge un sacco di iuta, dentro ci sono le cornici dei sette capolavori rubati: all’interno vi è un’etichetta che reca un marchio di fabbricazione, dove si legge “Porto Marghera”, località industriale vicino a Venezia, mentre si accerterà che il cacciavite non è americano, bensì prodotto da un’azienda milanese.

Il Diritto Perfetto - Ritratto di Pietro Brembo

Raffaello Santi – Ritratto di Pietro Bembo


La pista si sposta in Italia: inizia una stretta collaborazione investigativa tra i Carabinieri del Nucleo Tutela dei Patrimonio Artistico e la Polizia ungherese. Un altro particolare balza agli occhi: negli stessi giorni del furto, in Ungheria scompare una ragazza di sedici anni, che parla perfettamente l’italiano. Si segue anche quella pista: poco tempo e la giovane viene rintracciata in ambienti di dubbia fama, messa alle strette confessa quasi subito.
Era stata avvicinata da due italiani, si innamorò di uno di loro e per questo accettò di aiutarli, trovando un paio di complici che avrebbero dovuto fare da palo durante l’operazione. Identificati i due balordi, ben presto vennero acciuffati: in sede di interrogatorio, uno dei due raccontò il piano in ogni dettaglio, comprese le diverse ricognizioni effettuate nei giorni precedenti al furto per capire i tempi del giro delle guardie e per accertare quali fossero le misure di protezione poste a tutela delle opere.
Specificarono che la loro ricompensa per la collaborazione fu il “Ritratto di giovane” di Raffaello, valore 17 miliardi di lire dell’epoca, che pensarono bene di seppellire in un campo poco distante in attesa di tempi migliori per monetizzare. In breve il dipinto venne ritrovato in buone condizioni.
Nel frattempo, in Italia, i Carabinieri proseguono una meticolosa indagine alla vecchia maniera: indizi e riscontri, vagliati senza i grandi supporti tecnologici di oggi, portano in un bar di Reggio Emilia. Vengono identificati due personaggi, tali Ivano Scianti e Graziano Iori, i cui nomi erano già spuntati in altri reati connessi al mondo dell’arte.
Un altro nome emerge dall’indagine: si tratta di un certo Morini, proprietario di una Fiat Ritmo rossa, il quale che da qualche tempo viaggiava con una Citroen a noleggio. Che fine aveva fatto la Ritmo Rossa?
Gli inquirenti incrociano queste informazioni con gli ungheresi i quali, con un certosino lavoro di controllo delle immagini della frontiera, riferiscono che effettivamente una vettura identica a quella indicata aveva varcato il confine poco dopo il furto in direzione della Jugoslavia.
Il Morini venne sottoposto a interrogatorio: consapevole del rischio di finire in un carcere ungherese, iniziò con le prime ammissioni, dichiarando che la Ritmo Rossa si trovava presso un’officina meccanica in Grecia, essendo rimasto in panne durante una vacanza. Gli investigatori ritennero piuttosto strano il mese di novembre per andare in vacanza in Grecia…
Tutte le piste portano al mondo dei trafficanti di opere d’arte: la mente della banda risulta essere Scianti, ma né lui, né Iori risultano reperibili. Viene, quindi, allertata la Polizia greca, la quale accerta che, nei pressi del luogo dove sarebbe stata ricoverata la Ritmo rossa, vive un ricco appassionato di opere d’arte.
Ormai il cerchio si stringe e i quadri diventano difficilmente piazzabili, c’è troppo clamore intorno al caso, il mondo intero attende notizie; il timore è che vengano distrutti.
Invece, si verifica la svolta: una telefonata anonima perviene al capo del Servizio Interpol della Grecia, rivelando il luogo dove si sarebbero potuti ritrovare i sei dipinti rubati. Le Forze dell’Ordine si precipitano sul posto e in una cassa ritrovano le tele: tutte più o meno in buono stato.
C’è anche la Madonna Esterhàzy, forse quella che ha subito il danno maggiore, una crepa longitudinale dovuta al fatto di essere stata piegata, ma nulla di irreparabile. La notizia del ritrovamento fa il giro del mondo, con grandi onori alle Forze dell’Ordine di tutti i paesi coinvolti, evidenziando la grande efficacia della cooperazione investigativa internazionale.
Tralasciando le dimissioni della direttrice del Museo e altri vari strascichi, vi è dire che all’esito della celebrazione dei processi le pene comminate dagli ungheresi furono molto più severe di quelle dei Giudici italiani. I due complici di Budapest vennero condannati rispettivamente a 5 e 11 anni, mentre la ragazza minorenne, dopo il processo d’appello, rimase in libertà con l’obbligo di rigare dritta.
Gli italiani, autori materiali del fatto, furono condannati a pene comprese tra i 4 anni e 9 mesi e i 4 anni e sei mesi.
Il 30 dicembre del 2014, Ivano Scianti rilasciò un’intervista al quotidiano “Gazzetta di Reggio” dove raccontò tutta questa rocambolesca storia, compreso il clamoroso errore del cacciavite che pensavano fosse di fabbricazione americana, lasciato nel tentativo di depistare le indagini verso l’ipotesi del complotto contro un paese comunista, nonché del sacco di iuta con l’etichetta italiana. Tutto venne raccontato… tranne il nome del vero mandante del furto del secolo.

Per approfondire:

“L’ombra di Caravaggio” di R. Fagiolo, ed. speciale del Corriere della Sera n. 28

“Gazzetta di Reggio” di T. Soresina del 31 dicembre 2014

Il fruscio di un attimo fuggente.

Nella prima metà del ‘700 l’arte muta, si fa più viva e dinamica, diventa la rappresentazione di un momento per fissare sulla tela un’emozione, rimanendo sotteso il significato della storia. 
Il diritto perfetto: il fruscio di un attimo fuggente

La decorazione è sempre ricca e opulenta, un tripudio di sete, trine e merletti; dominano le linee morbide e gli arabeschi, i colori si attenuano e largo spazio viene lasciato al rosa e al celeste.
Nella celeberrima opera “I fortunati casi dell’Altalena” – meglio nota come “L’Altalena” – la superba mano di Jean-Honoré Fragonard ha magistralmente evocato lo spirito leggero, la bellezza e l’esaltazione del divertimento tipico di quel tempo. 
Inizialmente il committente, si pensa un nobile francese, si rivolse a Gabriel-Francois Doyen descrivendo con precisione quale doveva essere il contenuto dell’opera; Doyen, specializzato in dipinti religiosi, rifiutò l’incarico e lo passò al collega Fragonard, il quale realizzò quanto richiesto: un religioso spingeva la moglie del nobile sull’altalena, mentre lui nascosto dietro a un cespuglio spiava sotto la gonna della signora.
Il risultato fu un capolavoro di virtuosismo unito a un’evidente sensualità: l’allusivo movimento dell’altalena, la scarpetta che vola via, la gonna alzata dal vento che lascia intravedere le calze candide trattenute da una giarrettiera, mentre lui sdraiato tra i cespugli coglie l’attimo per guardare sotto la veste di lei, tutto sottende un esplicito messaggio erotico. 
Da sempre il sapiente gioco della seduzione passa anche attraverso il visto e non visto e lo sbirciare sotto la gonna delle signore pur essendo prassi antica è ampiamente diffusa ancora oggi. Talvolta può accadere che il sottile limite del corteggiamento e del gioco delle parti venga superato, scivolando in atteggiamenti che possono assumere connotati lesivi dell’immagine, del decoro e della libertà altrui.

Il Diritto Perfetto - Amanti nel Parco

Amanti nel parco – François Boucher

Il travolgente progresso tecnologico ha contribuito a creare dei voyeurs 3.0, i quali non si limitano più all’occhiata indiscreta, ma provvedono a immortalare l’evento a suon di clic di smartphone, o microcamere della più svariata natura e dimensione, con frequente condivisione social dell’ambita immagine-trofeo.
 L’upskirting, ovvero la pratica voyeuristica di scattare foto sotto le gonne delle signore, è in continua espansione, ma risulta difficile da perseguire legalmente, in quanto al momento non esiste una fattispecie di reato entro la quale sussumere tale spregevole condotta, in particolare nei casi in cui l’immagine sia stata “rubata” in un luogo pubblico.

Le cronache raccontano che neppure quando il voyeur 3.0, con più di 5000 immagini in archivio, è stato colto sul fatto (si direbbe in flagranza se ci fosse un reato), si è arrivati a una condanna e il Tribunale di Milano è stato costretto a pronunciare sentenza di assoluzione nei confronti dell’imputato, verosimilmente perché il fatto non costituisce reato.
 I Giudici non hanno avuto scelta: niente norma incriminatrice, niente condanna. Peraltro, va sottolineato come l’upskirting non presenti i connotati della violenza privata, mancando del tutto la coartazione della volontà delle vittime, le quali al momento del fatto erano ignare e inconsapevoli e mai ebbero contezza di essere fotografate; neppure può trovare applicazione la norma sulla molestia, in quanto l’atteggiamento che reca disturbo deve essere percepito dalla persona offesa, cosa che non avviene in siffatte situazioni.
Sotto il profilo civilistico qualsiasi risarcimento è stato escluso, non essendo stato possibile procedere con l’identificazione delle vittime, con conseguente impossibilità di dimostrare l’eventuale danno dalle stesse sofferto. 
L’upskirting non è un gioco di seduzione e neppure un corteggiamento un po’ fuori dagli schemi: si tratta, invece, di un’evidente violazione della dignità e dell’immagine della persona, indipendentemente dal fatto ch’essa ne sia consapevole o meno; per tali ragioni da più parti – anche a livello europeo atteso che il fenomeno è fortemente sentito nel Regno Unito – si chiede un pronto intervento con mano ferma da parte Legislatore… nel frattempo… ragazze usate pure la gonna corta, ma occhio all’occhio indiscreto.

Per approfondire:

www.finestresull’arte.it

Giulia, l’acqua… e il concorso nel delitto quasi perfetto.

Siamo a Palermo, prima metà del ‘600, Giulia Tofana è un’avvenente cortigiana di pagana bellezza, dotata di un’acuta intelligenza e uno spiccato senso per gli affari. L’intraprendente ragazza aveva frequentato per qualche tempo uno speziale e questo le dette la possibilità di disporre del più famoso ed efficace veleno dell’epoca: l’arsenico.
Il diritto perfetto: la storia di Giulia Tofana

Si può dire che Giulia fosse “figlia d’arte”, in quanto sembra che sua madre, o sua nonna, fosse Thofania d’Adamo, giustiziata per aver eliminato il marito “cum venificio propinato”.
Rispetto alla d’Adamo, Giulia aveva raffinato la tecnica di preparazione del veleno: grazie a una particolare procedura di ebollizione dell’anidride arseniosa, era riuscita a ottenere una soluzione altamente tossica a base di sale d’arsenico, la quale si presentava come una semplice acqua, del tutto inodore e insapore, quindi, somministrabile alla vittima designata con estrema facilità.
Dietro alla facciata di cortigiana d’alto bordo e fattucchiera, Giulia aveva avviato una fiorente attività basata sulla produzione e vendita della sua “soluzione”: come una vera donna d’affari, aveva provveduto anche al “packaging” del prodotto, che presentava in fiaschette di vetro di circa mezzo litro, costose ma non economicamente inaccessibili.
Venivano dettagliatamente fornite le corrette istruzioni d’uso: si dovevano somministrare poche gocce al giorno, tempo due settimane il risultato era garantito: la morte veniva scambiata per una forte gastroenterite, malattia all’epoca largamente diffusa, così tutti la facevano franca.
L’acqua Tofana era diventata il rimedio ideale per procedere a un “divorzio” rapido e senza le lungaggini giudiziarie che ben conosciamo, per eliminare le amanti che infestavano la felicità coniugale, oppure per portare a termine piani che prevedevano la morte del malcapitato di turno, come nel caso di successioni ereditarie maturate prima del termine naturale… poco importava che si trattasse di un parente, un fratello o un amico.
Giulia, grazie al suo lavoro, era diventata molto ricca e nessuno sospettava nulla, sino al giorno in cui vendette la sua acqua a un tale di nome Spadafora il quale, invece di seguire le istruzioni d’uso, propinò alla vittima tutto il contenuto della fiaschetta, facendolo morire in tempi brevissimi e con evidenti sintomi di veneficio.
Giulia era ben consapevole che in breve le indagini sarebbero arrivate a lei, per cui decise di lasciare Palermo immediatamente: destinazione Roma.
Dopo diverse traversie, giunse nella Città Eterna dove, in poco tempo e con le conoscenze giuste ottenute grazie alla sua “professione”, riavviò la sua redditizia attività commerciale.
Le sue clienti erano prevalentemente donne che non riuscivano a disfarsi dei mariti, per cui ricorrevano al drastico metodo dell’acqua Tofana: tale pratica delittuosa venne scoperta quando una di loro somministrò il veleno in dosi eccessive. La donna sottoposta a tortura rivelò che il preparato era stato prodotto e venduto da Giulia Tofana.
Fermo restando che all’epoca i Tribunali non andavano tanto per il sottile, anche oggi possiamo sostenere come la posizione della cortigiana fosse difficilmente difendibile dall’accusa di concorso nel reato di omicidio volontario.
Il concorso si perfeziona quando il crimine è il risultato della consapevole partecipazione di ciascun concorrente alla determinazione dell’evento criminoso: in altre parole, ogni soggetto agente deve aver volontariamente fornito il proprio contributo personale alla realizzazione del delitto.
Nel caso di specie, Giulia Tofana è stata una complice dell’autrice materiale del delitto: infatti, se è vero che la sua partecipazione al reato si è limitata alla fornitura del veleno – materialmente somministrato dalla moglie della vittima – è altrettanto pacifico che tale contributo causale si sia rivelato determinante per l’omicidio. Sotto il profilo sanzionatorio tutti i correi soggiacciono alla pena prevista il reato commesso.
Le cronache dell’epoca non raccontano di un processo penale a carico di Giulia Tofana e sembra che la sua morte sia sopravvenuta per cause naturali.
Non morì, invece, il segreto della sua “acqua”, che venne tramandato alla sua figliastra Girolama Spana, la quale continuò e sviluppò l’attività della matrigna insieme ad altre quattro donne. Le cinque “imprenditrici” vennero fermate soltanto dopo diversi anni: il processo destò grande scalpore, il numero dei decessi era da capogiro, pare che le vittime complessive fossero più di 600. Il Tribunale ritenne le cinque avvelenatrici tutte penalmente responsabili dei reati loro ascritti, condannandole alla pena capitale che poco dopo venne eseguita in Campo dei Fiori a Roma.

Per approfondire:

“Veleni Intrighi e Delitti nei secoli” di F. Mari e E. Bertol, ed. Le lettere 2003;
“Diritto Penale – Parte Generale” di F. Fiandaca – E. Musco Sesta edizione ed. Zanichelli 2014